Monya Ferritti è mamma di due figli, di cui uno nato in Cambogia. Dal 2011 è presidente del Coordinamento CARE, che al momento della nascita contava 18 associazioni aderenti e che oggi è arrivato a 37. È anche al secondo mandato come commissario della Commissione Adozioni Internazionali (CAI). Con lei abbiamo fatto una chiacchierata a tutto tondo sullo stato dell’arte delle adozioni.
Che problemi ci sono oggi nelle adozioni internazionali, dal punto di vista delle famiglie?
L’adozione non sta solo cambiando, è cambiata. Sono cambiate le coppie e i bambini e questo sta trasformando le famiglie, talvolta mettendone in discussione la tenuta. I bambini che arrivano tramite adozione sono sempre più grandi e con bisogni speciali, basta guardare i report mensili della CAI, oltre il 60% circa ha bisogni speciali Report di marzo della CAI). Le coppie sono sempre più anziane avvicinandosi sempre più tardi all’adozione: nelle associazioni vediamo tante coppie di 50 anni, sposate magari da 10, fanno fatica poi a misurarsi con una genitorialità che richiede grande flessibilità. Le coppie sotto i 40 anni ormai sono considerate giovani.
Che cosa comporta questo cambiamento?
I bambini diventano rapidamente preadolescenti e adolescenti, senza che ci sia stato abbastanza tempo per “fare famiglia”. Gli adolescenti hanno naturalmente bisogno di staccarsi, ma la famiglia non è pronta alla crisi dell’adolescenza. La coppia dei genitori è stata fin troppo a lungo “coppia” e non è cresciuta insieme al figlio. Può vivere con troppa drammaticità movimenti tipici dell’adolescenza o può al contrario fare troppa poca attenzione a situazioni di rischio. La sensazione è che quella che viene messa in discussione sia la reciproca appartenenza. In adolescenza esplodono tante criticità e se non si fa nulla – in alcune zone d’Italia non si fa nulla – le famiglie scoppiano. A questo si aggiunga che la genitorialità adottiva è spesso ancora delegittimata dall’interno e dall’esterno: ad esempio a scuola devi sempre affermarti come genitore, andare oltre l’etichetta di “quello ansioso”, sei troppo spesso percepito come “di serie b”, come quello che si è dovuto accontentare oppure che ha fatto una buona azione… Ma sei delegittimato anche dall’interno del mondo adottivo. Le discussioni sulla mamma di pancia e mamma di cuore, sulla percezione del figlio come dono, a mio vedere squalificano il ruolo della genitorialità adottiva. La maternità della madre adottiva viene sempre confrontata in un modo o nell’altro con la maternità della madre di origine. La madre adottiva, quindi, o non è mai “abbastanza” o cerca un patto simbolico con la madre di origine attraverso il “dono” dato e ricevuto. Le famiglie adottive fanno molta fatica a percepirsi come legittime, ma la legittimità della genitorialità è fondamentale per la tenuta.
Queste difficoltà da cosa nascono?
Si tratta di difficoltà che non nascono in adolescenza ma dal mancato sostegno alle famiglie negli anni precedenti, anni in cui si cerca di normalizzare una situazione che fin dall’inizio è straordinaria perché la famiglia adottiva cerca di far entrare il figlio nel corpo della madre e nella genealogia del padre. Non è facile. Se questo processo non è accompagnato da persone esperte, se le famiglie non sanno a chi rivolgersi – penso alle famiglie del centro sud, dove non ci sono centri specializzati – la situazione rischia di esplodere. Non è un automatismo, lo voglio sottolineare con forza perché altrimenti sembra che siamo malati e patologici mentre al contrario bisogna riconoscere ed evidenziare la grande capacità di tenuta di tante famiglie e di resilienza dei nostri figli… Teniamo, ma abbiamo bisogno di sostegno, che significa post adozione e costi calmierati per il post adozione: dateci dei voucher, ci vuole tempo per capire le reali difficoltà dei nostri figli, spesso in assenza di una anamnesi.
Il tema costi è sempre di primo piano per le famiglie?
Certo. La genitorialità adottiva va sostenuta come qualsiasi tipo di genitorialità in Italia, così come la PMA. Noi sosteniamo costi elevati, è evidente che non tutte le famiglie possono permetterseli. Vorremmo che venisse stabilizzato il fondo per le politiche per la famiglia, lo diciamo da anni, con una voce esplicita sulle adozioni. Dopo anni di stallo, sono stati autorizzati i rimborsi delle spese adottive: non è abbastanza ma è un’occasione. Ripartiamo in pari dalle adozioni del 2018: le cose sono cambiate, a fronte del calo di adozioni si potrebbe anche pensare a un rimborso totale per chi adotta dal 2018 in poi, sono poco più di mille famiglie, non c’è paragone con i numeri del passato… Una scelta che va anche a vantaggio del post adozione, perché ciò che risparmi prima puoi metterlo sul sostegno dopo. E poi serve un grande lavoro da parte della CAI per contenere i costi, all’estero soprattutto, fermi da tantissimo sulla carta ma in realtà ampiamente lievitati. Nel momento in cui ci sarà un aggiornamento del sito della CAI e chiarezza dei costi, le coppie avranno una reale panoramica sugli enti: adesso devono chiamarli tutti o affidarsi al passaparola…
Uno storytelling tale per cui di adozione si parla solo o quasi in modo negativo – scandali, special needs, crisi – secondo lei ha impattato sulle famiglie?
Sì, si rischia di parlare solo dei problemi, lei stessa come prima cosa mi ha chiesto le criticità che vedo! Invece va messa sempre in evidenza la grande resilienza dei bambini, la capacità che hanno di uscire da situazioni limite e ricostruirsi una nuova vita. E la capacità delle famiglie di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di far diventare figlio un bambino che non lo era. Noi siamo famiglie con una forte connotazione sociale, siamo riconoscibili, non passiamo inosservate, ma spesso non siamo viste come famiglie reali, c’è una cultura forte per cui il sangue non è acqua. C’è chi ancora si trova a discutere nella propria famiglia per non esser stato capace di generare un figlio, ci sono delusioni per cui poi c’è molta aspettativa nei confronti dei figli che si adotteranno… C’è bisogno di una ripartenza culturale, ci sono troppi scontri ideologici attorno alle adozioni, il modello della biologia contro quello della biografia.
Cosa affermano questi due modelli?
La biologia dice che tu sei quello che sei a partire dalle tue origini. Lo si vede in due situazioni, da una parte gli adulti adottati che cercano le loro origini perché sentono “un pezzo mancante”, sentono che questo li determina. Attenzione, il mio non è un discorso contro la ricerca delle origini ma contro l’idea del “pezzo mancante”. D’altra parte ci sono i genitori che davanti ai comportamenti dei figli sentono che non possono entrare nella trama della propria famiglia ma si inseriscono nella trama dell’altro DNA. La prevalenza della biografia invece dice che sei determinato da come sei stato cresciuto. Io credo che la biologia deve conservare un valore ma non a discapito della biografia: invece c’è scontro ideologico che non fa bene al sistema delle adozioni né alla cultura delle adozioni. Le famiglie vanno aiutate nella costruzione dei rapporti e dei legami, perché si parte da una estraneità. Il figlio, come dicevo prima, va “messo dentro”. Solo la capacità dei genitori di costruire solidi legami di attaccamento riesce a dare radici. Spesso invece le coppie non riescono e non sono aiutate a creare uno spazio mentale psichico per incontrare il figlio per come è davvero: la famiglia allora rimane inchiodata alla estraneità e al non riconoscimento e pensa di non avere le risorse per modificare questa situazione. A volte l’estraneità, tenuta sotto traccia fin quando il figlio è piccolo, esplode inesorabilmente nel periodo dell’adolescenza. Il post adozione serve a favorire il nascere e crescere dei legami. Le Associazioni familiari servono moltissimo in questo senso: il peer to peer è la cosa che sappiamo fare meglio, partiamo da un vissuto che condividiamo, c’è un riconoscimento della difficoltà. Il post adozione è ciò attorno a cui nasce spesso un’associazione familiare, che solo quando è matura fa nascere il pre-adozione.
Ricerca delle origini: un tema sempre più cruciale.
Capita sempre più spesso. Una tendenza emergente è quella a fare più viaggi nel Paese di origine, anche da piccolini, insieme alle famiglie. Ovviamente quando si è lì, si fa anche un tentativo di tracciare la propria storia, in alcuni Paesi molto organizzati come la Corea del Sud è più semplice, in altri è impossibile. Ma un conto è cercare, un altro è essere cercati: cambia completamente. Spesso ormai capita ai ragazzi di essere cercati da famigliari, fratelli, zii e quindi che questi incontri siano non desiderati, che capitino in un momento in cui i ragazzi non li vogliono o non ci pensano. Questa è una vera intrusione.
Come è possibile che genitori o parenti biologici riescano a rintracciare un ragazzo che è stato adottato dall’altra parte del mondo?
La famiglia biologica può avere dei dati e con questi dati fare una ricerca in internet, sui social o altro e arrivare a rintracciare il ragazzo. Non sempre è vero che c’è protezione. Le associazioni familiari del CARE da tempo forniscono alle famiglie strumenti per creare consapevolezza su questa possibilità, in modo che siano preparate e possano prendere provvedimenti, ad esempio per proteggere la privacy dei figli sui social network. Istagram, ad esempio, potrebbe essere la nuova porta di accesso. È importante che i genitori adottivi del 2018 sappiano che i loro figli possono essere rintracciati e se non vogliono che questo accada devono prendere provvedimenti e avere le antenne dritte per contemplare anche questa possibilità, se non la prevedi non puoi difenderti. Dico di più: penso sia utile che questa diventasse una materia degli incontri preadottivi. Questo e la scuola, per far sì che si possa prevenire e non correre ai ripari.
Essere cercati, che cosa comporta? Cosa avete visto succedere?
Grandi crisi. Non sempre le persone cercano un ragazzo solo per sapere come sta: a volte ci sono richieste economiche, di venire in Italia, in generale richieste o anche informazioni date a ragazzi che non sono ancora pronti… Questi ragazzi hanno spesso ricordi e il senso di colpa di aver lasciato qualcuno là, che non se la sta cavando bene: questa intrusione è molto violenta. Questa è una situazione straordinaria, che da genitore non adottivo non dovrai mai affrontare. Non tutti hanno la capacità di farlo, in un certo senso è naturale non avere le capacità di affrontare queste situazioni che sono eccezionali, in cui è scontato fare errori. Serve un sostegno, un aiuto.
Il suo consiglio quale è?
Il bambino va aiutato a ricostruirsi, non sempre è detto che deve essere aiutato a tenere vivo un ricordo. Io credo che il compito di un genitore adottivo non sia di investigare la verità sulle origini del proprio figlio. Bisogna sempre interrogarsi quando, da genitori, abbiamo bisogno di anticipare i bisogni dei figli, qualsiasi essi siano, anche questo. Ad un genitore suggerirei di concentrarsi sul far mettere radici qua e creare una vera appartenenza reciproca, senza essere ideologico perché le situazioni sono tante. Che le adozioni debbano essere trasparenti è una banalità, chi può affermare il contrario? Però se un genitore ha perplessità sul reale stato di abbandono del figlio deve farsi aiutare, non può esserci questo fantasma in famiglia che mette in discussione la legittimità dei legami solidi e brucia la seconda possibilità al bambino di avere una famiglia. La famiglia non deve rimanere da sola se vive questa situazione.
Qual è il valore più grande dell’adozione internazionale oggi?
L’inclusione, la multi-culturalità, il fatto che la famiglia esiste a prescindere dai legami di sangue: questa è la cosa più bella che portiamo. Il fatto che le famiglie hanno valore a prescindere dalla loro formazione biologica. Però capita, al contrario, che le persone che incontrano me e mio figlio mi chiedano “chi è?”. Non lo identificano come mio figlio: pensi cosa significa per un ragazzo essere disconfermato ogni volta nella sua appartenenza. Come figlio e come italiano. Noi portiamo avanti il fatto che può esserci un’Italia multiculturale e che è italiano anche chi è di origine africana, asiatica… Non solo chi nasce in Italia ma chi diventa italiano perché è arrivato qui: è la cultura che crea appartenenza.
Qual è il valore aggiunto del CARE?
La nostra straordinarietà è di continuare a rimanere insieme pur rappresentando tante anime diverse, perché le associazioni aderenti sono differenti tra loro. È in questa aggregazione durevole che si sedimenta il know-how. Sui social, le famiglie adottive, spesso si aggregano su un problema, poi quando il problema è superato, quella presenza si spegne. L’associazionismo familiare si muove altrimenti: usa anche i social ma parte da relazioni reali, l’incontro, l’ascolto. Per questo il compito delle associazioni non si esaurisce mai nella sola rivendicazione.