L’ultimo sbarco di persone migranti in un porto italiano, a Pozzallo la scorsa domenica 15 luglio 2018 – 380 esseri umani – è iniziato in tarda serata e durato fino all’alba del 16 luglio. Da quando si è insediato il nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini e l’altro ministro competente in merito di navigazione, quello dei Trasporti Danilo Toninelli, i pochi sbarchi concessi sono stati tutti autorizzati a rotative dei giornali quasi chiuse e telegiornali della sera passati da un pezzo. Chi assiste agli sbarchi sono le forze dell’ordine, gli operatori istituzionali italiani (del Comune di approdo) ed europei (personale dell’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere) e umanitari, governativi come Unhcr e Oim e non governativi come Croce rossa e varie ong a seconda del porto, spesso Save the children e Medici senza frontiere. Poi, ovviamente, ci sono i reporter, che a seconda del luogo di sbarco vengono fatti avvicinare o meno (a discrezione della Questura: Catania, per esempio è da tempo inaccessibile ai media, nonostante gli appelli dell’Ordine dei giornalisti al ministero). Così come i fotogiornalisti, occhio spesso silenzioso ma fondamentale per dare al lettore/telespettatore frammenti di momenti che oggi più che mai sono il simbolo di questi anni difficili di gestione drammatica e spesso inadeguata dei flussi migratori. Nella lunga notte tra domenia e lunedì a Pozzallo c’era anche Salvatore Cavalli, 36 anni, catanese d’origine con anni di vita passati anche tra Bologna, Firenze, Milano e oggi collaboratore con molte delle più note agenzie mondiali. Non era il suo primo shooting di uno sbarco, certo. Però è stato sicuramente uno di quelli più difficili, visto anche il delicato periodo storico italiano ed europeo. Vita.it l’ha raggiunto e gli ha chiesto di ricordare quei momenti.
Come è stata la notte di Pozzallo?
Terribile. Io sono arrivato al porto presto, alle 16, mentre alcuni miei colleghi erano lì sin dalla mattina. Nonostante la nave si trovasse già lì, il primo sbarco è incominciato alle 2 di notte mentre il secondo alle 4. Nelle ore precedenti al primo sbarco l’unica attività è stata quella dei MedEvac (Medical Evacuation), che hanno iniziato a portare a terra i malati. Nessuno sembrava sapere niente, le autorità non rilasciavano commenti. E i migranti sembravano bloccati in un limbo in mezzo al mare. Noi sulla terra ferma, a nostra volta, eravamo bloccati in un altro limbo. Questo è quello che c’è stato di diverso rispetto agli altri sbarchi: una diminuzione della velocità nella gestione dello sbarco da parte delle autorità, un aumento delle perquisizioni corporali anche con uso di metal detector, e una maggiore noncuranza delle necessità di esseri umani già segnati da una terribile prova. Per non parlare dell’aria di sufficienza con cui è stata trattata la stampa.
Come ti spieghi questo cambiamento?
Tutto questo è accaduto perché il governo stava tentando di usare quelle persone disperate come merce di scambio politico. La situazione è peggiore rispetto al passato. Credo che attualmente gli sbarchi vengano utilizzati come spauracchio politico per raccattare qualche voto in più e distogliere l’attenzione degli italiani dai veri problemi che il paese deve affrontare. Per quanto riguarda il tema dei porti chiusi penso che sia un ulteriore passo verso la perdita di umanità: si tratta di una soluzione abominevole da un punto di vista morale, in quanto contraria ai più basilari diritti umani e ridicola da un punto di vista pratico in quanto inattuabile davvero a lungo termine.
Hai parlato con qualche operatore, con i colleghi o con i migranti durante lo sbarco? Cosa vi siete detti?
Con i colleghi per lo più si cercava di capire cosa stesse accadendo e quali fossero i tempi di attesa, confrontando le nostre fonti. In questa stessa situazione si trovavano pure gli operatori i quali erano spiazzati tanto quanto noi. Con i migranti è impossibile parlare durante lo sbarco.
In questo sbarco c’era la nave Diciotti della Guardia costiera. In altri hai fotografato la discesa delle persone dalle navi delle ong. Come ti sembra operino le organizzazioni non governative?
Ho conosciuto molte persone delle ong. Ricordo in particolare, alcuni componenti dell’ong Proactiva Open Arms (unica ong ritornata in mare e reduce da un drammatico salvataggio di una donna ieri 17 luglio 2018, ndr). Si tratta di persone fantastiche che si dedicano con abnegazione e passione ad aiutare gli altri. Il loro operato è sempre stato professionale e al contempo pieno di umanità.
Quali sono le tue regole personali che tieni a mente quando stai fotografando uno sbarco?
Quando fotografo è molto importante per me riuscire a rimanere calmo. Cerco di isolarmi dalla situazione in cui mi trovo, per poterla vedere attraverso l’obiettivo. Da quel momento in poi si tratta di prendere tante decisioni velocemente. Non ultime quelle inerenti all’eticità di alcuni scatti e se sia giusto farli o meno. Non ho relazioni particolari con le autorità ma solamente con i soggetti che decido di fotografare. Per lo più si tratta di relazioni empatiche. Spesso, anche nel recente passato, risalta l’umanità di chi accoglie: ricordo quando durante gli sbarchi venivano regalati ai bambini dei giocattoli. Oggi però questo non accade più.
Quando hai fotografato il tuo primo sbarco? Che situazione era?
Ho fotografato il mio primo sbarco sei anni fa. Era un barcone con oltre cento migranti a bordo, che si erano imbarcati nella città di Sgandara, in Egitto. C’erano in prevalenza uomini e ragazzi, poche donne con qualche neonato. Era stato avvistato a largo di Aci Castello, dopo aver vagato nel Mediterraneo per sette giorni. Quando l’imbarcazione raggiunse il porto di Catania scortato dalla motovedetta della Guardia Costiera, la prima cosa che mi colpì fu un gruppo di ragazzi dai volti stremati che ci salutava. Quando iniziò lo sbarco, mentre venivano fatte scendere donne e bambini, notai un ragazzo rimasto sulla barca. Stava seduto appoggiandosi a un tubo metallico. Con la mano destra si aggrappava al tubo, mentre teneva la sinistra penzoloni. Gli occhi erano chiusi. Un suo amico lo scuoteva tirandolo per il borsello, nel vano tentativo di tenerlo dritto. Dopo pochi secondi il ragazzo svenne, cadendo all’indietro. All’improvviso cinque membri di Croce Rossa si fiondarono su di lui per aiutarlo. Ma i tentativi di rianimarlo si rivelarono inutili e così il ragazzo fu portato via in barella. Il suo amico era rimasto immobile in ginocchio accanto a lui per tutto il tempo. Non potrò mai dimenticare quel giorno in cui vidi tanti altri ragazzi come lui svenire per disidratazione e venire portati via.
Qual è la situazione più drammatica in cui ti sei trovato a lavorare?
Facevo parte del team di Ap, Associated Press. Dovevamo documentare il lavoro della dottoressa Cristina Cattaneo, che si trovava nel Pontile Nato della Marina Militare di Melilli per identificare le vittime del naufragio del 18 Aprile 2015. Un naufragio dove sono morte più di 700 persone e che verrà ricordato come la più grande tragedia avvenuta nel Canale di Sicilia. L’odore di morte che si respirava nel capannone dove la dottoressa svolgeva il proprio lavoro mi accompagnerà tutta la vita.
di Daniele Biella