Il volontariato è il tema trasversale di tutta la XIX conferenza nazionale di CSVnet, in corso a Trento fino al 6 ottobre. In particolare la sessione di sabato 5 è incentrata sui primi risultati dell’indagine “Immigrati e volontariato in Italia”.
Si tratta di uno studio unico nel suo genere su scala nazionale, che per la prima volta ribalta il punto di vista delle analisi esistenti sul tema, focalizzando l’attenzione non sulle forme di intervento a favore delle persone di origine straniera, ma sul loro impegno in prima persona come volontari.
L’indagine è stata promossa da CSVnet e realizzata dal centro studi Medì di Genova con la direzione scientifica del sociologo Maurizio Ambrosini, che era già intervenuto alla conferenza di CSVnet dello scorso anno sfatando gli stereotipi sui cittadini di origine straniera rispetto alla realtà. Ambrosini ha accompagnato all’illustrazione dei dati anche alcune testimonianze intervistando tre donne straniere impegnate da anni in associazioni, tra cui la mamma del calciatore ventenne della nazionale Moise Kean, di origine ivoriana e residente ad Asti.
I risultati
Grazie al supporto dei centri di servizio per il volontariato, tra il 2018 e i 2019 sono stati raccolti 658 questionari e più di 100 interviste approfondite in 163 città italiane coinvolgendo migranti provenienti da 80 diversi paesi.
Pienamente inseriti nella società, istruiti, prevalentemente donne
Dai questionari emerge che il 52 per cento dei volontari immigrati è donna; il 42 per cento è giovane con un’età media tra 20 e 35 anni (il 31 per cento ha tra i 35 e i 50 anni). Vivono in Italia da circa 15 anni – il 4 per cento è nato nel nostro paese. Sono pienamente inseriti nella società: il 42 per cento possiede la cittadinanza italiana, 6 su 10 lavorano e 8 su 10 hanno un livello di istruzione medio alto; il 41 per cento possiede una laurea mentre i diplomati si attestano al 36 per cento.
Partecipano in modo stabile e in varie forme
Il 55 per cento dei volontari di origine straniera s’impegna in modo continuativo con una media di circa 6 anni di attivismo. A questa categoria appartengono soprattutto disoccupati, studenti e giovani che vivono nella famiglia di origine. I più saltuari rappresentano il 28 per cento del campione, con un’esperienza di volontariato di circa 3-4 anni. Si tratta soprattutto di casalinghe oppure persone che lavorano in modo occasionale o che hanno un impiego part-time. Per il restante 17 per cento aver trovato lavoro è la ragione per cui ha smesso fare volontariato, ma accetterebbe forme di volontariato “occasionale”.
Il passa parola
Il passa parola, tra amici connazionali o italiani, è il modo più frequente con cui i cittadini immigrati hanno trovato l’associazione in cui impegnarsi. L’invito da persone già volontarie in un’organizzazione è un’altra risposta che ricorre spesso insieme al cercare in autonomia l’associazione più adatta ai propri interessi. In alcuni casi sono gli stessi immigrati ad aver fondato l’associazione in cui operano.
Gli ambiti d’impegno
L’impegno sociale dei cittadini immigrati si concentra soprattutto in quattro settori: attività culturali (176 risposte) – come la promozione del patrimonio, organizzazione di mostre e visite guidate; progetti educativi con bambini e ragazzi (173 casi), ad esempio nel doposcuola o per il sostegno scolastico. Seguono, con 165 risposte, le iniziative ricreative e di socializzazione – feste, eventi, sagre – insieme ai servizi di assistenza sociale negli sportelli di accoglienza e ascolto, mensa sociale, distribuzione di vestiario o di pacchi alimentari.
Un tipo di attività, quest’ultima, che li vede molto coinvolti anche negli empori solidali, dove persone e famiglie in difficoltà economica possono fare la spesa gratuitamente. Secondo il primo rapporto di Caritas Italiana e CSVnet sul fenomeno, i volontari stranieri sono presenti in un terzo degli empori con una media di quattro unità per servizio.
Insieme agli amici o da soli fanno volontariato “perché ci credono”
L’impegno individuale – senza far parte di un gruppo o associazione – riguarda il 25 per cento dei volontari immigrati, stessa percentuale di chi sceglie di fare volontariato più strutturato.
La maggior parte (50 per cento) non aveva mai fatto volontariato nel proprio paese e in Italia ha fatto la sua prima esperienza. Rispetto alle motivazioni che spingono al volontariato – a cui si poteva dare più di una risposta – la spinta più forte sembra essere “credere nella causa” per cui opera l’associazione (196 risposte) seguita dalla possibilità di “svolgere l’attività con gli amici” (192 preferenze) oltre alla possibilità di incontrare altre persone (164 preferenze).
Gli effetti: il volontariato che fa bene (anche a se stessi)
Impegnarsi nel sociale per “farsi nuovi amici” e allargare la rete dei rapporti sociali (259 risposte) ma anche per sentirsi integrati nella società (233 risposte), sono le ricadute personali a cui gli immigrati volontari hanno dato il maggior numero di preferenze.
Seguono il sentirsi meglio con se stessi (149 preferenze) insieme all’essere più informati e acquisire un modo nuovo di vedere le cose (145 preferenze). Fare volontariato non lascia quasi mai indifferenti: solo 10 sono state le preferenze di chi ritiene di non aver avuto nessun tipo di cambiamento nella vita personale dopo un’esperienza di attivismo.
Molte luci qualche ombra
Per il 29 per cento dei cittadini stranieri coinvolti nell’indagine il volontariato è un’esperienza positiva senza nessuna criticità. Tra gli aspetti che possono ostacolare l’impegno nella solidarietà c’è la scarsa conoscenza delle proposte di volontariato (17 per cento) e poca dimestichezza con la lingua italiana (14 per cento) mentre l’11 per cento dei casi segnala possibilità di discriminazione e razzismo insieme a una generale chiusura delle associazioni rispetto a chi è diverso.
Potete trovare la ricerca completa qui: Immigrati e volontariato in Italia